domenica 31 ottobre 2021

CADUTE: FRAMMENTI DI UN VERO RACCONTO di Roberta Sandrini

La prima volta che sono caduta mia madre piangeva.

Era un giorno d’autunno, credo, perché una larga riga d’oro tagliava la finestra, e sicuramente arrivava passando tra le foglie dell’albero che sbarrava le nostre finestre. Non faceva né caldo né freddo, me ne ricordo, forse venivo dal balcone piuttosto che da una stanza.

Era in cucina, come spesso, come sempre, china su una pentola, qualcosa in mano ferma a mezz’aria, forse per girarne il contenuto.

Le lacrime non le vidi subito, si confondevano nei vapori della cucina, e poi erano lacrime piccole, trasparenti ed assolutamente silenziose: si girò e non provò a nasconderle.

Avrei dovuto chiederle perché o solo allungare una mano ed accarezzarla sul braccio seminudo, con la manica tirata su: ma caddi. Poi dalla caduta si rialzò il rimpianto, il primo della lista.

 

La seconda volta che sono caduta era un giorno grigio, uno di quei giorni sospesi e senza storia, fatti per essere infilati in una qualsiasi parte dell’anno, a far da sfondo ad un attimo o ad una storia.

Frugai nel cassetto di mio padre in cerca di una penna, facevo i compiti.

Quel groviglio di mani, piedi, schiene, gambe ed altre parti del corpo, che in pose storte ed innaturali le persone fotografate cercavano comunque di mettere in mostra, i visi vagamente stravolti, con gli occhi chiusi e le bocche spalancate.

Non provai in realtà niente di particolare; cercai di osservare con attenzione, vagamente intuendo che erano cose che avrei dovuto fare, prima o poi, ed era meglio imparare, cosa non sapevo esattamente, ma insomma cercare di tenere a mente.

Ma per quanto mi fossi sforzata di mostrarmi fredda e lucida, una volta richiuso il cassetto sono caduta. 

 

La terza volta che sono caduta era nel giardino della scuola.

A metà mattinata di un giorno pallido, con un sole bianco che andava e veniva, nel grembiule nero che i ricami a fiori fatti da mia madre non riuscivano ad ingentilire, e che tirava sui fianchi perché ero grassoccia, ed essendo grassoccia ero anche goffa.

Non ricordo perché mi avvicinai a quel capannello di ragazzine di altre classi, avevano la mia età comunque, più o meno tutte, le più grandi giocavano a pallavolo o ci ignoravano.

Appena mi accorsi che parlavano a bassa voce fissandomi, e dei sorrisini che spuntavano sui loro visi, come chi, da dietro una porta, si prepara a spaventare un malcapitato ospite, mi girai di scatto e mi allontanai.

Indispettite, iniziarono ad inveire ad alta voce, richiamando l’attenzione di chi girava lì intorno.

Mi misi a fissare una delle prime rose che spuntavano sui cespugli del giardino, una rosa con un gambo lunghissimo ed un bocciolo piccolissimo, attorcigliato e stretto su se’ stesso, verde con una lieve sfumatura bianca in cima: feci in tempo a pensare che mi sembrava una delle lampadine vecchio stile, che svettavano sul lampadario del salotto.

Ma poi sono caduta lo stesso.

 

La quarta volta che sono caduta in realtà, in un certo senso, ero già in terra. Sdraiata su un letto, ma in realtà in terra, l’unica differenza un lenzuolo arruffato invece di un pavimento o dell’asfalto di un strada.

Lui parlava sorridendo, non ricordo cosa dicesse, mi accorsi che non mi toccava più e guardava verso la finestra: ma la strada in cui viveva era stretta e le case alte, con tetti spioventi. Era già mezza buia, anche se non era particolarmente tardi, e non si capiva che ora fosse, che tipo di giorno fosse, se bello, brutto, pure la pioggia si sarebbe sciolta nel grigio dei muri di fronte.

Tenevo le braccia larghe, perché stranamente non volevo toccare il mio corpo, non abbassavo neanche per sbaglio lo sguardo per vedere se fosse cambiato o meno: lo sentivo all’improvviso estraneo, come se fossi diventata aria, e lo avessi abbandonato lasciandolo vuoto e inanimato su quel letto.

Poi quel corpo mi ha ricordato improvvisamente che esisteva ed era lì, e mi sono alzata per andare in bagno.

Nel corridoio stretto e bianco sono caduta.

 

La quinta volta che sono caduta poco prima ero seduta davanti ad una cinquina di signori compiti e ben vestiti: li conoscevo da circa cinque anni, da quando mi ero iscritta all’università.

Parlavo sorridendo e loro mi sorridevano: ascoltavo mentre parlavo il suono della mia voce, erano parole che avevo scritto io, ed imparato quasi a memoria.

Ma non c’era compiacimento: piuttosto ero come un bambino che recita una poesia davanti alla maestra, chiedendosi se l’ha imparata bene, o un monaco che recita per l’ennesima volta la cantilena nota e senza più misteri, che ha l’obbligo di recitare ogni mattina.

Sorridono, e continuando a sorridere mi porgono la mano e stringono la mia: mi alzo, barcollo impercettibilmente e cado.

Ma per la prima volta è come la caduta del centometrista che dopo la vittoria, nello stadio urlante da ogni ordine e grado di posti, fra migliaia di sguardi increduli, si lascia cadere per rimanere lì sulla terra, ancora per un poco solo con se’ stesso, come prima, quando aveva davanti solo una striscia rossa contrassegnata da gesso bianco.

 

Sono a terra ma per fortuna è bel tempo: vedo frange di nuvole, un cerchio di uccelli grigio azzurri che sembra si tuffino nel cielo fatto piscina, sparendo per un istante sott’acqua, un aereo troppo piccolo per fare rumore, il salto di una palla gialla.

 

Mi rialzerò, è sempre successo.    

 

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