Piano terra. Le porte dell'ascensore si aprono per far entrare una barella. Mi schiaccio in fondo, da qui la persona sdraiata è una catena montuosa di coperte scure.
«Buongiorno»,
dice l'infermiere, premendo il sei.
Sesto
piano, penso, il piano in cui nascono i bambini.
Stesso
ascensore, una barella identica. Otto anni fa c'eri tu lì sopra. Avevo dormito
meno di tre ore, ma chi poteva dormire quella notte. Nessuno dorme quando
diventa papà. Sulla tua pancia nostro figlio aveva gli occhi chiusi, la mano
minuscola stringeva il tuo indice.
Eravate
bellissimi.
Frugai
la tasca in cerca del cellulare e lì, in ascensore, allungai il braccio per
inquadrarvi bene.
«Il
flash, cristosanto», imprecai sottovoce.
Il
piccolo Luca prese a piangere il pianto disperato dei neonati.
«Non
ti preoccupare», dicesti avvicinando la sua bocca al capezzolo. «Va bene così,
si calma subito. La foto com'è?»
«Sfocata.»
«Ne
farai un'altra.»
Terzo
piano. Le coperte sulla barella gemono, forse è una donna che deve partorire.
La mia mano, in tasca, stringe il cellulare. Lì dentro ho una foto per ogni
giorno di vita di Luca, anzi da prima che nascesse. Quella mattina eri
splendida con gli occhi lucidi e il test di gravidanza in mano e ora ho decine
di foto di te che soffi baci, la pancia in fuori e gli occhi che ridono.
Quarto
piano. Le porte dell'ascensore si aprono e si richiudono. Vi fotografavo
insieme, voi due, come foste ancora uniti dal cordone ombelicale. A Luca
piaceva, da piccolo. Al mattino, trovavo la forza di alzarmi pensando al
momento in cui avrei aperto la porta di casa e lui mi sarebbe corso incontro
per fare la foto.
Sesto
piano. È il piano in cui nascono i bambini ma non è il mio piano, oggi. La
barella esce, l'infermiere saluta di nuovo. Accarezzo il cellulare in tasca
come se fosse una cosa viva, una parte di me. Da qualche mese Luca non vuole
più essere fotografato, mette la mano davanti alla faccia, non sorride più.
«Senza
di te non vuole», ti rispondo se mi chiedi della foto.
«È
diventato grande. Va bene così», dici, ma sappiamo entrambi che non è vero.
L'ascensore riparte, sono solo in una gabbia vuota.
Nono
piano, il mio. So che è l'ultima volta, hanno chiamato per dirmelo, prima. Mi
sono chiuso in bagno per non far sentire Luca e non sono riuscito a trattenere
un singhiozzo.
«Posso
venire anch'io?» mi ha chiesto poi.
«Oggi
no. Forse domani», ho mentito.
Esco
dall'ascensore e respiro forte.
«Va
bene così», dico a voce alta.
Ma
nulla va bene. Vorrei solo scappare via. Potrei tornare in ascensore e
schiacciare il pulsante con il sei sopra, andare a scattare foto ai bambini
appena nati esposti nelle culle, dietro al vetro. Fare finta di esserne il
padre felice. Toglierei il flash, questa volta. In tasca, la mano stringe
ancora il cellulare.
No.
Scuoto
la testa e lascio la presa. Niente foto, oggi. Oggi il mio posto è qui, con te,
al nono piano.
Il
piano in cui muoiono le mamme.
Spingo
la maniglia del reparto ed entro.
Molto bello
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